Università Popolare “Giovanni Brancati”

Policastro Bussentino (SA)

A Policastro, terra estrema del Cilento, posta a sud-est della Regione Campania, da più di un decennio opera, con alterne vicissitudini, l’Università Popolare “Giovanni Brancati”. Un’associazione, quella di Policastro, che si propone come fine culturale, il recupero della memoria storico-letteraria del Golfo, promuovendo con scadenza annuale:

Giovanni Brancati, perché questa intitolazione? Per saperne di più si legga questa libera frequentazione storico-letteraria tratta da C.Mutini.

Giovanni Brancati, nacque a Policastro Bussentino (SA), in data non bene precisabile, ma sicuramente anteriore alla metà del XV sec. (1448?).
Poco dopo il 1465 si trasferì a Napoli, entrando in intimità con il potente Antonello Petrucci, segretario del re Ferdinando d’Aragona. Con l’aiuto del Petrucci, entrò nelle grazie del re e subito si distinse per la sua cultura umanistica.
Nel 1468, al cospetto del re, tenne un’orazione assai dotta, la “De laudibus litteraturum”. Seguono altre orazioni, di tipo cortigiano:
a) un encomio de re Ferdinando, recitato nel gennaio del 1472;
b) nel 1473, in occasione del matrimonio della principessa Eleonora con Ercole d’Este, un’orazione “con grande dispendio di lodi”;
c) nel 1477 celebra le seconde nozze del re con Giovanna d’Aragona. In questo stesso anno, viene nominato “artium et medicinae doctor”.
Altre orazioni di argomento erudito e filologico, impegnano il Brancati, come letterato operante in una società di dotti, con le quali orazioni, mette bene in evidenza la sua notevolissima conoscenza degli antichi esempi di oratoria classica.
Ancora più significativa della cultura del Nostro, è un’epistola indirizzata al re, che gli aveva affidato l’incarico di controllare e correggere la traduzione che Cristoforo Landino aveva compiuto della “Historia narturalis” di PLINIO. Con tale composizione letteraria, il Brancati interveniva nella più grande disputa linguistica del Quattrocento, orientando la corte di Napoli in una battaglia a fondo in difesa del latino, che mal celava però, un vecchio dissidio municipalistico in cui gli umanisti di Napoli replicavano alle glorie degli scrittori residenti a Firenze, patria del volgare.
Alla lingua volgare, il colto nostro umanista, volle affidare la “Mulomedicina” attribuita a Publio Vegezio, uno studio condotto per un superbo testo di scienza, più destinato alle scuole e per questo stesso, precluso alla conoscenza di un più vasto pubblico.
L’illustre umanista di Policastro, fu pure autore di testi epistolari, redatti per conto del re ed indirizzati ai grandi protagonisti delle vicende politiche del tempo.
La prima epistola è dedicata al re di Francia Luigi XI: tratta del dissidio tra Firenze e Sisto IV al tempo della congiura dei Pazzi; segue quella indirizzata il 15 agosto del 1478 al duca di Milano Gian Galeazzo Sforza, contro gli intrighi del ministro Cicco Simonetta.
Nel 1480 intanto, Giovanni Brancati è nominato Direttore della Biblioteca di Corte. 
L’operetta letteraria comunque, che rivela per intero le sue doti di letterato umanista è la “Deploratio de morte Paulae suae puellae…”
La trama narrativa è tenue e molto lineare. La lingua, in latino dotto, sfuma in una prospettiva elegiaca la dolorosa rimembranza della sua amata. Le componenti culturali di questa prosa, tra le più riuscite dell’ultimo Quattrocento latino non si sovrappongono mai a un filo conduttore, che è lucido ed estremamente coerente con i principi di una rara e precisa tradizione espressiva in cui si colloca meritatamente il Nostro. Sotto questo aspetto, la “Deploratio…”, costituisce l’esito esteticamente necessario della molteplice attività del Brancati, teorico della superiorità del latino sul volgare e scrittore, nondimeno, cosciente umanisticamente, che una tradizione illustre non può rinnovarsi che su una autentica esperienza di vita.

NOTA DI CULTURA STORICO/LINGUISTICA.
L’attività letteraria del Brancati sarebbe in gran parte sconosciuta, se un intero codice di componimenti non documentasse con eccezionale ricchezza tutta la produzione dello stesso fiorita all’ombra della protezione aragonese.
Si tratta di un codice appartenuto agli Aragonesi di Napoli e poi donato da Ferrante I, a un convento di Valenza. Fu rinvenuto dal De Marinis e affidato a Bendetto Croce per una adeguata illustrazione dei testi.
Di lui Croce ha detto: “UNO SCRITTORE NON SOLO INEDITO, MA SCONOSCIUTO E TUTTAVIA DI ESSERE CONOSCIUTO BEN DEGNO”.
(liberamente tratto da C.MUTINI.)

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